Le cose difficili
Uno. Il coraggio di dire
'no'
Due. Le cose più grandi di loro
Tre. La scuola pubblica
Quattro. La porta di casa protegge, ma isola
Cinque. Abbiamo il figlio che volevamo
Sei. Diamo sempre troppo poco
Sette. Divertirsi coi figli
'Le cose difficili'
"E' difficile fare le cose difficili:
parlare al sordo,
mostrare la rosa al cieco.
Bambini, imparate a fare le cose difficili:
regalare una rosa al cieco,
cantare per il sordo,
liberare gli schiavi
che si credono liberi."
GIANNI RODARI
Me lo chiedo da tempo, in un mondo che peggiora, in una società
come la nostra, che degrada di giorno in giorno, e nasconderselo sarebbe ingenuità
o delitto. Si respira un'aria che addormenta, piena di bacilli che corrompono.
La tendenza a scavarsi ciascuno - in questa realtà morbida, instabile,
disorientante - una piccola nicchia di quiete personale è diffusa come
un'epidemia. L’arte del compromesso è alla portata di tutti, come
Kant e Croce nelle collane tascabili. Gli strumenti della tecnica, entrati nella
vita quotidiana per servirla, se ne impadroniscono. L’auto, il televisore,
il frigorifero, la lavatrice, il giradischi sono idoli, ormai, più venerati
e obbediti di qualsiasi altro nella storia delle religioni. Diventiamo meschini
senza accorgercene, proprio come si diventa vecchi, o pazzi. La lezione della
moderazione, del buonsenso, del senso comune, si fa ossessionante. Le piccole
virtù prendono il posto della grande passione, come in
un matrimonio di convenienza. Le grandi passioni sono faticose: è
facile stancarsene.
Penso di descrivere (telegraficamente) un'esperienza abbastanza diffusa, di
additare un pericolo che certo non siamo in pochi a vedere. Ecco, m'interessano
soprattutto i suoi riflessi sul nostro rapporto coi figli. Se siamo noi a cedere,
ad abbandonarci a una vita senza passione, a non provare rabbia per come va
il mondo, a guarire dalla nausea, a rinunciare all'azione, possiamo ottenere
due risultati, per noi ugualmente negativi: nel caso migliore (per loro) saranno
i figli a rivoltarsi contro di noi, a fare contro di noi la loro `rivoluzione
culturale' (speriamo che l'immagine non mi faccia qualificare come `cinese');
nel caso peggiore, alleveremo dei piccoli ipocriti carrieristi. Bravi tecnici,
magari, ma odiosi `benpensanti'.
E se noi non cediamo: se continuiamo a pensare che una vita senza passione
è degna d'un albero, d'un gatto, ma non d'un uomo, allora come possiamo
comunicare ai nostri figli questo atteggiamento? Sono sufficienti, allora, i
consigli della psicologia e le conquiste della pedagogia sperimentale? Essere
`genitori moderni' può bastare? Fino a che punto, e con quali mezzi,
l'educazione del cuore deve accompagnarsi all'educazione della mente?
Dovrei definire, prima d'andare avanti, che cosa intendo per `passione'. Sono
sicuro d'averlo già fatto capire a sufficienza. Ma se occorre una definizione
più precisa, eccola: intendo per `passione' la capacità di resistenza
e di rivolta; l'intransigenza nel rifiuto del fariseismo, comunque mascherato;
la volontà di azione e di dedizione; il coraggio di sognare in grande;
la coscienza del dovere che abbiamo, come uomini, di cambiare il mondo in meglio,
senza accontentarci dei mediocri cambiamenti di scena che lasciano tutto com'era
prima: il coraggio di dire di no quand'è necessario, anche se dire di
sì è più comodo, di non fare come gli altri, anche
se per questo bisogna pagare un prezzo.
I ragazzi hanno bisogno di quelle che una volta si chiamavano
`le cose più grandi di loro'. Hanno bisogno di prender parte a cose
vere. Hanno bisogno di misurare la loro energia su scala più vasta
che non siano la scuola e la famiglia. Hanno bisogno di concepire ideali e d'imparare
ad amarli sopra ogni altra cosa. Ciò che facciamo per incoraggiarli in
questa direzione è giusto: ciò che facciamo per trattenerli è
sbagliato.
Dai figli, una volta cresciuti, possiamo ricevere due sorte di rimproveri. Potranno
rimproverarci di non averli aiutati `a far fortuna', e sarebbe triste per loro
e per noi, perché significherebbe che abbiamo educato dei cinici egoisti.
Ma sarebbe molto più grave se ci potessero rimproverare di aver dato
alla loro vita un orizzonte moralmente meschino.
Fin dai tempi della scuola materna, siamo andati in caccia della
scuola giusta, della maestra giusta. Abbiamo fatto, posso dirlo?, “carte
false”, pur di procurare a nostra figlia una certa scuola: quella che
ci permettesse di fare ’fronte unico' con la maestra, di lavorare insieme
nella stessa direzione, senza disfare l'uno il lavoro dell'altro. Per la scuola
elementare, sarebbe quasi un romanzo raccontare come abbiamo agito. Il fatto
essenziale mi pare quello di aver avuto una strategia. Avevamo bisogno di una
scuola moderna, non dogmatica, non intollerante, aperta; una scuola in cui i
bambini contassero più dei registri, il loro lavoro più dei voti
con cui la legge fa obbligo di classificarli, la loro comunità più
delle loro piccole competizioni, la loro sincerità più dell'ortografia,
la loro libertà più dello schema imposto dall'alto. L'abbiamo
cercata e trovata. Per anni abbiamo visto crescere nostra figlia, tra casa e
scuola, proprio come avevamo desiderato che crescesse: sincera, attiva, amica
di tutti, capace di avere opinioni e di difenderle; anche dura, dove e quando
occorre cercare la durezza, per non costruire sulla sabbia. Un miracolo? Bene,
noi abbiamo trovato questo miracolo nella scuola di tutti, nella scuola di Stato.
La media, vedremo, sarà quel che sarà. Ma quegli anni conteranno
per sempre.
Del resto, anche per la media, non siamo mica rimasti con le mani in mano. Ci
siamo messi, un gruppo di genitori, decisi a far restare insieme i nostri figli
anche dopo la quinta, in cerca della scuola giusta: non troppo lontana dalle
abitazioni (Roma è sterminata!), disposta ad accoglierli in blocco, come
una comunità già costruita, non come atomi disgregati; disposta
a tener conto della loro storia passata, a costruire su quella, non sul vuoto
dei programmi e dei regolamenti.
Così, siamo andati da un preside. Mancavano mesi all'apertura delle scuole,
i bambini non avevano ancora fatto l'esame di quinta. Ci rendevamo conto che
la nostra richiesta era, a dir poco, insolita. Siamo stati ascoltati con attenzione,
con intelligenza. Una scuola pubblica ha fatto una classe apposta per noi. Un
altro miracolo? Questa volta no. Questa volta debbo precisare la lezione che
ricavo dall'esperienza: si ottiene di più, per il proprio figlio, si
ottiene il meglio, per lui (il meglio possibile...) se non si agisce soli, se
i genitori si alleano, se ognuno di noi si sente padre... di un gruppo, se supera
l'egoismo della paternità (della maternità) per far qualcosa che
contribuisca a creare una responsabilità collettiva della società
adulta nei confronti della società bambina.
Ci sono cose che si risolvono in casa, ce ne sono altre, molte,
moltissime, che bisogna risolvere, o almeno tentare di risolvere, lottare per
risolvere, fuori casa. La porta di casa protegge, ma isola. Bisogna saper uscire.
Bisogna lasciar entrare chi vuole. La gente ci guadagna, a conoscerla. Noi eravamo
e siamo padri tanto diversi: c'è chi è religioso e chi è
ateo, chi è ricco e chi è povero, chi è comunista e chi
non è niente del tutto. I nostri figli ci hanno costretti a diventare
amici, a conoscerci e a capirci. Spiegatemi un po' come accade che finiamo per
volere le stesse cose, essendo così diversi. Spiegatemi perché
bambini cattolici e bambini protestanti, o non battezzati, si sentono oggi difesi
gli uni dagli altri, garantiti ciascuno dal rispetto e dalla tolleranza degli
altri. A questo risultato nessuno di noi genitori avrebbe potuto pervenire da
solo, o senza la maestra: ma la maestra non ci sarebbe potuta arrivare senza
di noi, senza ciascuno di noi.
Trovo, se debbo dirlo più in generale, che dell'educazione familiare
non ci si può accontentare: bisogna agire più in grande.
Mi risulta che la cosa è possibile anche adesso: anche in una società
frammentata come la nostra.
Guardandomi indietro, trovo che errori miei - quelli di cui mi
ricordo, perché la memoria è interessatissima a dimenticare ciò
che le duole - non sono nati quasi mai da una mancanza di vigilanza sulla bambina,
ma da una mancanza di vigilanza su me stesso. Ognuno di noi oltre al mestiere
di padre, per vivere ne esercita altri: ed è così facile, caso
per caso, ritenere che questi altri mestieri siano più importanti, tanto
importanti da esigere la precedenza...
Abbiamo il figlio che volevamo? Mi pare di poter dire di sì. Ma nello
stesso momento in cui lo affermo, trovo che il desiderio si è realizzato
in modo tutto suo. Chi crede di predeterminare il risultato di un'azione educativa,
sbaglia certamente, se non accetterà in ogni momento di modificare il
suo obiettivo, per adattarlo alla vita che gli sta di fronte. Le immagini sulla
`pianta da raddrizzare', sulla `cera da modellare', eccetera, sono, oltre che
inutili, abbastanza balorde. Si tratta, quasi sempre, di creare le condizioni
perché la vita scelga la via che le sembra migliore, mai di prefissare
questa via centimetro per centimetro, o anche solo metro per metro. Tu desideri
che il bambino cresca ricco di interessi, attivo, capace di darsi (a un lavoro,
all'amicizia, a compiti sempre nuovi), generoso: puoi ottenerlo, ma arrendendoti
all'idea che ciascuno di quegli aggettivi si incarni in una concretezza originale.
La scelta decisa è quella del bambino. Tu lo aiuti con l'esempio, con
i gesti, soprattutto quelli involontari. Il bambino ha un istinto eccezionale
per scoprire il momento in cui sei autentico e quello in cui reciti una parte
per lui, e la sua curiosità è sempre per l'autentico. Impara da
te le parolacce, se guidi l'automobile a parolacce, non le belle parole con
cui gli dai la buona notte. Impara da te a leggere, se ti vede leggere, se ti
vede amare i libri, non se gliene regali dieci o cento. Ti giudica mentre parli
al telefono con uno sconosciuto: da come tratti la portiera o la domestica a
ore. Soprattutto, egli non impara da te, padre, o da te, madre, ma da una cosa
che esiste solo per lui, ed è insieme madre-padre, il rapporto tra i
genitori, il tono, lo stile, i contenuti della vita familiare. Il che è
giusto, in definitiva, dal momento che è figlio di un rapporto tra due
persone, non di una persona o dell'altra prese separatamente.
Questa è una cosa che si può capire facilmente, ma si può
dimenticare cento volte al giorno: per distrazione, per gelosia, per cento motivi.
La cosa più difficile da imparare è poi quella del rispetto del
bambino: rispetto per ciò che è e per ciò che diventa,
per il
suo modo di accogliere esempi, lezioni e parole, per i suoi limiti e per i suoi
slanci. E' così facile mortificarlo, ingannarlo, `metterlo a posto' con
un semplice atto di prepotenza. Credo che questa sia una delle materie che non
si possono studiare una volta per tutte, nelle quali si debbono dare continuamente
esami nuovi e sempre più complessi.
Bisogna prepararsi per tempo al momento in cui il figlio si staccherà
del tutto dal grembo familiare. E' nato per quel distacco. L'educazione è
un prepararlo a partire. Per questo c'è un fondo doloroso nel mestiere
di genitore. Credo, anche per questo, che un uomo non possa limitarsi a `vivere
per i figli', secondo il classico elogio che si trova scritto in molte pietre
tombali. Un uomo deve avere un lavoro da amare, passioni, idee in cui crede:
sono la sua forza, quella che gli permette di affrontare la vita con i figli
senza troppa angoscia. Senza angoscia del tutto, non è possibile.
Che altro potrei dire d'aver imparato?
Che dai figli è meglio ottenere la stima che il rispetto: meglio la solidarietà
che la gratitudine. Che l'affetto è un ben povero educatore, se non si
nutre di riflessione, vorrei dire addirittura di scienza. Che i figli non si
capiscono una volta per tutte, ma bisogna continuare a studiarli, bisogna poter
confrontare le proprie conclusioni con quelle degli altri. Che per quanto diamo
loro, a essere appena appena un po' severi con noi stessi, scopriamo che diamo
sempre troppo poco.
I bambini hanno molti motivi per muovere domande su domande. Il
primo è questo: che vogliono avere delle risposte. Cioè, prima
ancora che per avere una spiegazione su una determinata cosa, domandano per
sentire la voce che risponde, per avere una nuova prova che possono contare
sull'aiuto dei genitori, sulla loro dedizione. Magari non gli interessa nemmeno
di sapere perché questo, perché quello. Non sempre fanno attenzione
al contenuto della risposta. Provano il meccanismo, ecco tutto. Vediamo se a
schiacciare questo bottone tutto funziona bene come sempre, se la mamma è
ancora nostra, se il papà è ancora nostro. Essi ci fanno le loro
domande, pare, proprio quando siamo più occupati, quando stiamo facendo
un lavoro importante, quando non è il momento di disturbarci. Non possono
aspettare un momento? No, non possono. Essi ci vengono a fare delle domande
per l'appunto perché vedono che siamo lontani e occupati d'altro, che
li abbiamo dimenticati, che li stiamo trascurando.
E quello è giusto il caso in cui bisogna rispondere con pazienza. Non
ci vuole nemmeno molto ad abituarli a 'fare a metà' con le nostre occupazioni.
Una volta constatato che il pericolo di perderci non esiste, che si trattava
di una paura immotivata, essi si arrendono volentieri alla necessità
di `prestarci' ad altre occupazioni.
Ma se noi, alle loro domande, rispondiamo con un «lasciami in pace»,
«non vedi che adesso non posso?», e «su, va a giocare»,
e simili `fogli di via', delusione a parte, essi si scriveranno quelle nostre
risposte nel loro libro nero e prima o poi ce le rinfacceranno. Ci dev'essere,
nella memoria o nel subconscio del bambino, un `libro nero' in cui è
tenuto il conto più severo dei nostri torti e di cui si tireranno le
somme il giorno della vendetta, quando saranno loro a ripeterci le rispostacce
che avranno imparato da noi, imitando alla perfezione il tono seccato che hanno
sentito per la prima volta da noi, e che proprio noi abbiamo insegnato loro
a usare. Siamo stati noi a non parlare con loro: essi, che se ne rendano conto
o no (quasi certamente no) ci ripagano con la stessa moneta quando si rifiutano
di parlare con noi. E' cominciato tutto quando erano piccoli e camminavano a
quattro zampe.
E' cominciato tutto in un lontano giorno di nervi. lo, per me, ci metto la mano
sul fuoco. E parlo solo di nervi per fare il caso migliore. Se poi volessimo
considerare il peggiore, allora non dovremmo nemmeno, forse, mettere nel conto
le difficoltà della vita, il lavoro, gli orari, le preoccupazioni che
ci lasciano poco tempo per stare con i figli. Queste cose, certo, pesano spaventosamente.
Costruire un giusto rapporto con un bambino non è cosa cui provveda da
sola la natura, la quale, quando ce lo ha fatto mettere al mondo, ha finito
la sua parte e se ne infischia.
Si tratta di un lavoro lungo, complesso, per il quale abbiamo sempre poco tempo,
per il quale ci troviamo quasi sempre
nelle condizioni (economiche, culturali, eccetera) peggiori.
Ma il bambino, contrariamente a certe apparenze, non è un insensato che
non arrivi a capire che il padre deve uscire, che la madre deve lavorare, eccetera.
Se, prima o poi, gli diventa chiaro che più di mezzora al giorno non
ci potrà avere, concentrerà tutte le sue speranze (quelle delle
sue speranze, che ci riguardano) in quella mezzora. Ed ecco il caso peggiore:
quello del padre che elargisce quella mezzora dall'alto della sua autorità
e imponenza, come una concessione per la quale il bambino dovrebbe essergli
grato, senza vera amicizia, senza vera gioia, non in modo che il personaggio
più importante di quella mezzora sia lui, il bambino, il figlio. La cordialità
è più importante dell'autorevolezza, la allegria più bella
della scienza. Il bambino, bisogna farlo ridere. E' più importante farlo
ridere che rivelargli chi sa quali misteri, fargli parte di chi sa quali segreti.
Il dialogo è ridere insieme, a un certo punto e al novanta per cento.
Il riso è la cosa in più, il dono inatteso, l'al di là
della protezione e della sicurezza. Ridete con lui, è vostro per la vita.
Divertitevi con lui, divertitelo, arrivate alla molla del riso scatenato, senza
più né senso né misura: è una conquista i cui effetti
dureranno per un tempo incalcolabile. E chi non vorrebbe essere ricordatodal
figlio come l'uomo con cui si sono fatte quelle risate matte, liberatrici, educatrici...
Volete un altro aggettivo? Catartiche. Bisogna aver riso col bambino al di là
di ogni equilibrio, perché l'equilibrio sia un ritorno riposante, una
sensazione rasserenante, e non una conquista faticosa. E queste sono cose che
non hanno a che vedere nemmeno con il famoso `contesto', con le condizioni economiche,
con la crisi della famiglia e della società, con la transizione dal capitalismo
al socialismo. Fanno parte di quell'irrazionale che ci accompagna in ogni momento
della vita e che dev'essere compreso, razionalizzato, non espulso, per pigrizia
o per calcolo, per bigottismo teorico o per sottovalutazione.